Il fenomeno della diffamazione sui social media e altre piattaforme digitali su cui gli utenti sono incoraggiati a pubblicare le proprie opinioni è ormai diventato una costante. Meno comuni sono, per ora, le conseguenze nella vita reale.
Uno dei più recenti casi di cronaca riguarda un cittadino statunitense, W. Barnes, che vive e lavora in Thailandia. Dopo aver soggiornato al Sea View Resort di Koh Chang, ha cominciato a pubblicare, anche attraverso l’uso di falsi profili, recensioni negative sull’albergo in diversi siti specializzati nel raccogliere le opinioni dei clienti, arrivando addirittura a dichiarare che la struttura “praticava la schiavitù”.
In risposta a tutte queste recensioni, il gestore del Sea Review Resort lo ha denunciato. Alla denuncia è seguito l’arresto e il suo successivo rilascio su cauzione. Ora è in attesa del processo che, nel caso si concluda con una condanna, potrebbe portarlo a dover scontare fino a due anni in un carcere thailandese.
La normativa del Regno di Thailandia in materia di diffamazione è stata spesso criticata per la durezza delle sue sanzioni nonché, secondo gruppi per i diritti umani e per la libertà di stampa, per un suo uso spesso politico. Sebbene in passato fossero molte le nazioni, anche europee, ad avere e ad applicare con fermezza leggi simili, oggi in Occidente casi del genere si verificano molto difficilmente, sia per via di scelte legislative che per un diverso orientamento nell’applicazione.
Più nel dettaglio, la normativa italiana sulla diffamazione prevede, all’articolo 595 del Codice penale, che chiunque offenda “l’altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a milletrentadue euro.” Se, però, l’offesa “è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a cinquecentosedici euro.”
Nella categoria dei mezzi di pubblicità prevista dalla norma penale citata vengono fatti rientrare in modo ormai pacifico anche i social media e tutti gli altri siti in cui gli utenti possono scrivere delle recensioni, in ragione della loro idoneità a trasmettere opinioni anche denigratorie ad un numero potenzialmente illimitato di persone (si vedano, ad esempio, la sentenza n. 8328/2015 della Corte di Cassazione e la sentenza n. 468/2019 della III sezione del tribunale di Pavia).
Tuttavia, in senso contrario alla prassi giurisprudenziale nazionale, nel giugno del 2018 la Seconda Sezione del Tribunale penale di Lecce ha stabilito che “scrivere recensioni false utilizzando un’identità falsa è un crimine secondo la legge italiana” ed ha di conseguenza condannato l’imputato a 9 mesi di carcere e al pagamento di circa 8.000 Euro per spese legali e danni a TripAdvisor, che si era costituita parte civile nel procedimento.
Sarà un nuova stretta, l’avvio di una tendenza a un orientamento più rigido delle Corti in materia di responsabilità per quello che si scrive online?