“Ciò che è illegale offline deve esserlo anche online”: così la Presidente della Commissione Europea Ursula Von Der Leyen ha commentato la decisione del legislatore australiano di obbligare i social media, quali Facebook e Google, a condividere i guadagni ottenuti dalle inserzioni con chi crea contenuti.
Tutto nasce dal fatto che i governi di diversi Paesi si stanno rendendo conto di come le grandi piattaforme social ottengano una consistente parte dei loro profitti dalle pubblicità, che spesso vengono inserite sulle pagine in cui compaiono notizie derivanti direttamente dai siti di informazione.
I primi ad aver affrontato la questione a livello statale sono Francia e Australia: se la prima è intervenuta solo in ambito di antitrust, ordinando a Google di corrispondere una remunerazione agli editori per ogni anteprima delle notizie pubblicata sulle sue pagine, l’Australia ha invece provveduto sul piano legislativo a tentare di porre un argine allo smisurato potere delle piattaforme digitali.
Il governo australiano aveva già da tempo incaricato l’ente che vigila sulla concorrenza (“Australian Competition and Consumer Commission”, altrimenti conosciuto come ACCC) di formulare un codice di condotta (il “Media Bargaining Code”) che obbligasse le piattaforme media a corrispondere agli editori una percentuale dei guadagni ottenuti grazie ai contenuti creati da questi ultimi. Inizialmente l’idea era di prevedere dei negoziati fra le parti circa l’effettivo compenso da versare, tuttavia le tempistiche si sono allungate eccessivamente per via dell’emergenza sanitaria. Per questo motivo il governo ha ritenuto necessario modificare il codice di condotta fino ad allora pensato integrandolo con maggiori obblighi contrattuali, per garantire che le società che si interfacciano con questi colossi dei media siano trattate correttamente e con trasparenza, a partire da una preventiva informazione circa eventuali cambiamenti negli algoritmi di ranking dei contenuti.
Si inizia così ad affrontare lo squilibrio di potere fra le piattaforme digitali e i creatori di contenuti, prevedendo che le parti debbano negoziare degli accordi per quanto concerne la condivisione delle notizie e i guadagni ottenuti dalle inserzioni correlate. Qualora non dovessero trovare un accordo commerciale, interverrà un arbitro per stabilire il contributo più adatto. Inoltre, nel caso in cui le società di Big Tech dovessero interrompere il rapporto, riceverebbero una multa salata che potrebbe raggiungere cifre multi milionarie.
Al momento risulta che Google abbia già trovato un accordo collettivo con le due maggiori emittenti televisive del Paese, che la obbligherà a versare in un solo anno 47 milioni di dollari.
Al contrario, Facebook non sembra aver reagito molto bene al nuovo codice di condotta: infatti, qualche settimana fa tutti i siti di notizie, anche quelli dedicati all’informazione emergenziale, si sono visti bloccare la condivisione delle notizie da parte degli utenti australiani sui social media di competenza del colosso. La piattaforma però non ha mai ammesso che si sia trattato di un goffo tentativo di boicottare la riforma, sostenendo invece che il tutto fosse stato causato da un problema tecnico (poco dopo, infatti, è tornato tutto alla normalità).
L’iniziativa australiana può essere considerata affine per contenuto alla direttiva sul copyright approvata in Unione Europea nel 2019 e che le legislazioni nazionali degli Stati membri stanno via via recependo. Per il recepimento ci sarà tempo fino a giugno 2021 e l’Italia, nonostante l’approvazione del Senato avvenuta a novembre, non ha ancora adempiuto all’obbligo comunitario.
La direttiva prevede che ogni Stato membro adotti una normativa in grado di tutelare il diritto d’autore in vista del cambiamento del concetto stesso di “stampa”, apportato dall’importanza dei social media nella società moderna. L’obiettivo è quello di porre in essere delle regole che obblighino le piattaforme social ad accordarsi con i creatori di contenuti per meglio salvaguardare i diritti di questi ultimi. Da una parte quindi si prevede l’introduzione di una «link tax», ossia una quota dei proventi realizzati grazie a contenuti coperti da diritto d’autore, nonché di una responsabilizzazione circa le violazioni di quest’ultimo. Infatti, gli Stati recepenti devono prevedere delle sanzioni per i comportamenti scorretti e degli strumenti per ottenere la rimozione dei contenuti per cui le società Big Tech non abbiano pagato. Tutto questo però riguarda solo le piattaforme media che abbiano un fatturato superiore ai 10 milioni di euro e che svolgano l’attività da più di tre anni.
Si tratta di un approccio complesso, che andrà valutato caso per caso quando verrà recepita la direttiva dai singoli Stati membri. La Francia, ad esempio, è la prima ad aver provveduto al recepimento e ad essersi accordata con Google per un totale di 76 milioni di dollari suddivisi su tre anni e fra 121 editori. E’ un accordo nettamente svantaggioso per editori ed emittenti televisi se rapportato a quello che la stessa società di media ha dovuto accettare in Australia, come poc'anzi riportato.
Sta quindi iniziando un nuovo capitolo della regolamentazione della concorrenza all’interno del mondo dei servizi digitali, con una potenziale corsa al rialzo fra i vari Stati in via di recepimento della direttiva per ottenere accordi sempre più vantaggiosi per i media nazionali, con conseguenze che potrebbero sorprendere anche i mercati: potremmo infatti essere di fronte al detonatore che potrebbe invertire il trend borsistico sui titoli tecnologici, che hanno ora numeri incredibilmente anomali.
Vittoria L. Boselli